LA CORTE D'APPELLO 
 
    Ha emesso il seguente decreto nel  procedimento  iscritto  al  n.
226/2013 V.G. 
    Letto il ricorso proposto ai  sensi  della  legge  n.  89/2001  e
modif. succ. in data 5.8.2013 (assegnato a questo magistrato in  data
199.2013) da: Occhino Lino; 
    nato in  data  19.7.1942  a  Roccafiorita  (ME)  e  residente  in
Messina, via Calcara n. 35; 
    C.F.: CCHLNI42L19H405Z; 
    parte rappresentata e difesa per procura ai margini del  predetto
atto  dall'avv.  Isgro'  Vito  Antonio  del  foro   di   Messina   ed
elettivamente  domiciliata  in  Reggio  Calabria,  presso  lo  studio
dell'avv. Versace Barbara (via Ibico n. 1/C); 
    Vista la documentazione allegata; 
    Premesso in punto di fatto che la decisione che  ha  concluso  il
procedimento presupposto (emessa in data 27.11.2012 - 11.12.2012)  e'
irrevocabile e che il ricorso odierno e'  stato  depositato  in  data
5.8.2013; 
    Dato atto che la domanda e' stata introdotta entro il termine  di
proponibilita' di rito (fermo il disposto dell'art. 4 della legge  n.
89 del 2001 nei testo vigente, secondo cui la domanda di  riparazione
puo' essere proposta a pena decadenza entro sei mesi dal  momento  in
cui  la  decisione,  che  conclude  il   procedimento   e'   divenuta
definitiva), donde la sua ammissibilita'; 
    Considerato in diritto che: 
        - la  soccombenza  nel  giudizio  presupposto  di  colui  che
promuova un ricorso per equo indennizzo (ai sensi della legge  n.  89
del 2001 e modif. succ.) e' stata espressamente prevista quale  causa
di rigetto della domanda - a termini dell'art. 2  comma  2  quinquies
della legge citata, nel testo in atto vigente - soltanto nel caso  in
cui concorrano con essa i requisiti ulteriori: 
        della   condanna   del   soccombente   per    responsabilita'
processuale aggravata ex art. 96 C.P.C.; 
        della condanna del medesimo ex art. 91  primo  comma  secondo
periodo C.P.C.; 
    ovvero, ancora: 
        dell'aver detta parte posto in  essere  un  abuso  di  poteri
processuali che abbia  determinato  un'ingiustificata  dilazione  dei
termini del procedimento; 
        sicche' puo' darsi atto che persiste (pur dopo !a novella  di
cui alla legge n. 134 del 2012)  il  riconoscimento  normativa  d'una
piena legittimazione in capo alla parte, anche  se  gia'  soccombente
nel giudizio presupposto,  a  far  valutare  l'eventuale  sussistenza
d'una lesione del suo diritto a conseguire in  un  tempo  ragionevole
una pronuncia risolutiva della questione controversa; 
        - la previsione contenuta nel comma 3 del "nuovo" art. 2 bis,
secondo cui "... la misura dell'indennizzo, anche in deroga al  comma
1, non puo' in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se
inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice  ...",  che  ha
introdotto un tetto massimo (o valore "soglia") per la determinazione
in concreto del quantum liquidabile prima non previsto, in quanto non
coordinata  con  il  superiore  principio  fa  tuttavia  sorgere  due
distinti problemi interpretativi, che esigono  coerenti  e  correlate
soluzioni (data la loro reciproca interdipendenza): 
          1) cosa  debba  intendersi  per  "...  valore  del  diritto
accertato dal giudice ..."; 
          2) se  l'introduzione  d'un  tetto  massimo  all'indennizzo
liquidabile cosi' avvenuta valga per tutti i possibili  epiloghi  del
giudizio  presupposto  e  per  tutte  le   parti   d'esso   (qualora,
ovviamente, promuovano un ricorso ex lege Pinto); 
    Rilevato, in proposito: 
        - sub 1): 
          che (nella scelta  materiale  con  cui  il  legislatore  ha
provveduto a calmierare gli  effetti  per  l'Erario  delle  decisioni
emanande in subiecta materia) il "valore del  diritto  accertato"  e'
parametro che (sebbene suppletivo)  prevale  rispetto  a  quello  del
valore della causa, qualora in concreto gli sia inferiore; 
          che per l'identificazione del parametro  primario  suddetto
(che comunque va determinato, ai  fini  perequativi  suddetti)  unico
possibile richiamo si  da'  con  riferimento  alla  disciplina  della
determinazione del valore della controversia (rilevante sia  in  tema
d'individuazione del Giudice competente sia per la liquidazione delle
spese giudiziali) dettata dagli artt. 7 e ss. fino a 17 del C.P.C.; 
          che  mentre  per  ie  cause  di  valore   "determinato"   o
"determinabile", il "valore soglia" in questione - se ad esso dovesse
essere correlato - sarebbe agevolmente individuabile,  per  le  cause
cd. di valore  indeterminabile  e'  dubbio  se  debba  applicarsi  il
criterio per cui la causa avra' valore  entro  il  tetto  massimo  di
competenza del giudice adito (soluzione che potrebbe operare peraltro
soltanto per le cause di competenza del giudice  di  pace)  o  quello
aliunde determinato ai sensi degli artt.  10  e  ss.,  ovvero  se  la
predetta disposizione non trovi applicazione  e  quindi  l'indennizzo
liquidabile ex lege n. 89  del  2001  non  debba,  in  tali  ipotesi,
incontrare alcun tetto massimo (come sembrerebbe potersi arguire, tra
l'altro, in materia  di  accertamento  su  diritti  di  personalita',
diritti indisponibili o status e posizioni giuridicamente  tutelabili
analoghe); 
          che,  comunque,  l'epilogo  del  procedimento  presupposto,
nell'ipotesi di soccombenza in esso di chi promuova ricorso ai  sensi
della legge  n.  89  del  2001,  rileva  alla  luce  delle  superiori
constatazioni anche quale elemento per la determinazione della soglia
(o "tetto massimo") della concreta liquidabilita'  dell'indennizzo  e
va pertanto assunto nei novero degli elementi  funzionali  al  merito
della decisione emananda; 
          che  in  subiecta  materia  notoriamente  e'  ammesso   che
sussiste  un  pregiudizio  in  re  ipsa,   suscettibile   dunque   di
quantificazione equitativa, sicche' non puo' affermarsi: 
ne' che sia onere del ricorrente dedurre e  provare  (quale  elemento
indefettibile per il vaglio della domanda) se sussista e quale sia il
valore "soglia" di cui al comma 3 dell'art. 2 bis della legge citata; 
ne' che, in difetto d'allegazione o  deduzione  d'elementi  idonei  a
consentirne l'identificazione e la quantificazione  (sempre  ai  soli
fini  della  legge  n.  89  del   2001),   tanto   ne   comporterebbe
l'inammissibilita': 
non si  dimentichi,  infatti,  che  si  versa  in  tema  di  giudizio
monitorio cui si applicano i primi due  commi  dell'art.  640  C.P.C.
(secondo  cui  «... Il   giudice,   se   ritiene   insufficientemente
giustificata la domanda, dispone che il cancelliere ne dia notizia al
ricorrente, invitandolo a provvedere alla  prova  ...»,  con  l'esito
sanzionatorio per cui «... se il ricorrente non risponde all'invito o
non ritira il ricorso oppure se la domanda  non  e'  accoglibile,  il
giudice la rigetta con decreto motivato ...») e che il giudicante non
puo' pertanto rigettare, ovvero dichiarare inammissibile, la  domanda
per la superiore circostanza; 
          che, pero', mentre per il regime  della  competenza  si  fa
riferimento ai valore quale determinato o determinabile in  relazione
al petitum (o ai petita), per il  regime  della  legge  Pinto  si  fa
riferimento ai valore ritenuto in decisione, e pertanto  va  chiarito
quale sia l'effettivo contenuto prescrittivo della disposizione; 
        - sub 2), che va verificato  se  detta  disposizione  integri
un'ulteriore causa d'eventuale esclusione d'indennizzo (ancorche' non
espressamente tipizzata come tale), nel senso che nulla possa  essere
riconosciuto all'istante nel caso in  cui  il  diritto  dallo  stesso
asseritamente vantato sia fatto  valere  in  giudizio  ma  sia  stato
affermato insussistente (in tutto a in parte), ovvero se  qualora  il
ricorrente sia stato soccombente (in tutto o in parte)  nel  giudizio
presupposto e detto giudizio abbia  avuto  durata  irragionevole,  la
negazione del diritto preteso non valga anche ad escludere ii diritto
ad equo indennizzo; 
    ed in proposito almeno tre sono le opzioni praticabili, nel senso
che: 
        2.1 
          una prima opzione  suggerisce  che  la  prima  eventualita'
possa ammettersi nel sistema (e  sarebbe  probabilmente  quella  piu'
coerente con l'esigenza calmieratrice di cui s'e' detto); 
    cio' (sebbene in apparente contrasto con l'indirizzo  consolidato
della CEDU in proposito, per cui anche il totalmente  soccombente  ha
diritto ad equo  indennizzo  in  caso  di  durata  irragionevole  del
processo di cui sia stato parte) in via ermeneutica deriva dal  fatto
che una siffatta interpretazione  della  norma  (che  apparirebbe  in
sintonia,  peraltro,  con  alcuni  spunti  offerti  dalla   relazione
introduttiva del testo  del  disegno  di  legge  poi  definitivamente
approvato dal Parlamento e, tra questi, segnatamente con  il  rilievo
della  necessita'  d'arginare  la  presunzione  di  dannosita'  della
prolungata durata di un processo in modo che non divenga assoluta, ma
rimanga iuris tantum, con  conseguente  ammissibilita'  -  nonostante
eventuali diversi dicta della Corte CEDU d'ipotesi  d'esclusione  del
diritto ad un indennizzo anche in caso di  irragionevole  durata  del
giudizio stesso la' dove cio' comunque ripugni a  principi  superiori
dell'ordinamento interno) sarebbe coerente altresi' con la  ratio  di
non poche altre disposizioni della novella normativa  in  esame,  tra
cui: 
        le   richiamate   previsioni   d'esclusione    del    diritto
all'indennizzo di cui all'art. 2 comma 2 quinquies; 
        la  disposizione  che  indica  l'esito  del  processo  tra  i
parametri cui commisurare l'indennizzo; 
        la  prevista  improponibilita'  della  domanda  prima   della
definizione del procedimento con provvedimento irrevocabile  (che  e'
funzionale a consentire proprio il vaglio dell'esito di tale giudizio
ai fini liquidatori suddetti); 
        2.2 
          una seconda opzione proporrebbe, invece,  di  ritenere  non
soltanto che il diritto ad equo indennizzo spetti comunque  (ove  non
si versi nelle cause d'esclusione espressamente tipizzate)  anche  al
ricorrente totalmente soccombente nel giudizio presupposto,  ma  pure
che esso debba  essere  commisurato  entro  il  range  normativamente
stabilito - tra i' 500 ed i 1500 euro  per  anno  (o  frazione)  -  e
comunque con le limitazioni di soglia  o  di  tetto  massimo  dettate
dall'art. 2 quinquies comma 3 (come a dire che non solo il vittorioso
nel giudizio presupposto  ma  anche  il  soccombente  incontrera'  un
limite quantitativo alla pretesa riconoscibile); 
        2.3 
          una terza opzione, infine, parrebbe ammettere che in  detta
liquidazione a pro del totale soccombente il valore  soglia  suddetto
non dovrebbe operare (perche' non v'e' a  suo  favore  riconoscimento
d'alcun diritto al cui valore parametrare tale tetto massimo); 
    ma e' palese che  tanto  implicherebbe  una  diversificazione  di
trattamento (con esito premiale per il soccombente e penalizzante per
il vittorioso parziale)  difficilmente  compatibile  con  i  principi
costituzionali d'uguaglianza e ragionevolezza; 
    Constatato che la seconda delle tre opzioni enunciate  e'  invece
quella (nel contesto di sistema vigente in proposito)  piu'  coerente
con l'indirizzo costante CEDU retro richiamato e con la littera legis
della novella  del  2012  e,  per  tal  ragione,  va  tendenzialmente
preferita, poiche' se il legislatore  avesse  voluto  anche  in  tale
ipotesi derogarvi (in ossequio a  principi  superiori  d'ordinamento,
quali quelli d'uguaglianza e  di  ragionevolezza)  avrebbe  potuto  e
dovuto prevederlo; 
    Rilevato che, tuttavia, occorre chiarire ugualmente -  nei  sensi
retro richiamati sub 1) -  cosa  debba  intendersi  per  "valore  del
diritto accertato"; 
    Ritenuto, in proposito, che: 
        - assumere che il valore di soglia  massima  sia  applicabile
per il solo caso in cui il ricorrente ex lege  n.  89  del  2011  sia
stato sostanzialmente vittorioso (in tutto o in parte)  nel  giudizio
presupposto non risulta, in difetto d'espresse  clausole  limitative,
ammissibile; 
    la disposizione, d'altronde, va coordinata con la previsione  del
comma  2  del  medesimo  articolo  (secondo  cui:  "L'indennizzo   e'
determinato a norma dell'art. 2056 del codice civile, tenendo  conto:
a) dell'esito del processo [corsivo dell'estensore] nel quale  si  e'
verificata la violazione di cui  al  comma  1  dell'art.  2;  b)  del
comportamento del giudice  e  delle  parti;  c)  della  natura  degli
interessi coinvolti; d) del valore e  della  rilevanza  della  causa,
valutati anche in relazione alle  condizioni  personali  della  parte
..."), che a tanto non fa alcun riferimento; 
    ancora, e' da considerare che l'accertamento della violazione del
diritto alla ragionevole durata del processo (che e' l'oggetto  della
cognizione del procedimento in questione) non verte  soltanto  quanto
accade "nel" processo, come parrebbe prima facie dedursi dall'incipit
dell'art. 2 comma 2 ("... Nell'accertare  la  violazione  il  giudice
valuta la complessita'  del  caso,  l'oggetto  del  procedimento,  il
comportamento delle parti e del giudice durante procedimento, nonche'
quello di ogni altro soggetto chiamato a concorrervi o a  contribuire
alla sua definizione"), ma anche il  suo  concreto  epilogo  (perche'
occorre verificare che si sia al di fuori delle ipotesi  di  prevista
esclusione  del  diritto  ad  indennizzo,  e  dunque  non   si   puo'
prescindere dal suo rilievo ai superiori fini); 
    - opinare che la superiore lettera possa interpretarsi nel  senso
di aver fatto riferimento alla vittoriosita' o  alla  soccombenza  in
senso  processuale  e  non  sostanziale  (equiparando   cosi'   l'una
all'altra delle  due  parti  del  giudizio  presupposto)  non  sembra
discutibile tanto  sotto  profilo  dell'equita'  sostanziale,  quanto
sotto profilo  del  rigore  formale  dell'interpretazione  che  vuole
adottarsi; 
    non appare  infatti  concettualmente  scorretto  legittimare,  in
tali' eventualita', l'impiego  quale  valore  di  soglia  massima  di
liquidazione - in via suppletiva rispetto a  quello  del  valore  del
diritto riconosciuto (che non c'e', perche' la sentenza  "rigetta"  o
dichiara inammissibile o improponibile o improcedibile la domanda)  -
quello del valore "positivo" che il giudizio  abbia  comunque  recato
alla parte processualmente vittoriosa: 
    avendo infatti il diritto  negato  all'uno  un  rilievo  concreto
economicamente correlabile alla sfera giuridica dell'altro (nel senso
che  il  convenuto  nel  giudizio   presupposto   che   non   formuli
riconvenzionali ma si limiti ad  una  mera  difesa  comunque  "lucra"
dalla sconfitta della pretesa altrui  la  stabilizzazione  della  sua
situazione quo antea, ossia il non dover corrispondere  o  non  dover
adempiere ad un facere altrimenti per lui oneroso  nella  misura  del
petitum preteso e poi disatteso),  l'interessato  potrebbe  venire  a
conseguire un indennizzo  da  irragionevole  durata  pur  non  avendo
azionato alcuna pretesa ex adverso, ed addirittura in misura massima,
mentre  quella   consentita   al   sostanzialmente   vittorioso   (ma
processualmente  di   gran   lunga   soccombente)   potrebbe   essere
decisamente inferiore alla prima; 
    e  cio'  non  risulterebbe  irragionevole  (o   comunque   lesivo
dell'uguaglianza sostanziale tra le parti di lite),  per  la  diversa
incidenza concreta sulla situazione di' vita  dell'uno  e  dell'altro
della pendenza in se d'un processo potenzialmente foriero d'apportare
vantaggio o svantaggio rilevante ad entrambi i contendenti; 
    in tale ipotesi si dovrebbe pero' prescindere dal principio della
domanda,  che  sembra  invece  recepito  dal  dictum  espresso  della
disposizione in esame ("... valore del diritto accertato ..."); 
    - di dubbia legittima appare, invece, una liquidazione equitativa
che - adottando, in  via  suppletiva,  un  criterio  di  perequazione
correttivo di potenziali distorsioni - riconoscesse che  l'ammontare:
o del valore del diritto riconosciuto in concreto alla controparte; o
del valore del giudizio (in base  al  variabile  grado  di  rilevanza
della soccombenza, se parziale o totale)  possano  costituire  soglie
non superabili' per entrambi i gia' contendenti; 
    e cio' nel senso che, qualora il valore del diritto accertato  in
capo all'attore (o ricorrente) del  giudizio  presupposto  fosse 0  o
inferiore a quello del valore del giudizio in  senso  processuale,  o
comunque accertato ex post, della controparte,  questa  non  potrebbe
vedersi  comunque  riconosciuto  un  indennizzo  superiore  a  quello
dell'attore sostanzialmente soccombente; 
    e cio' poiche' tanto risulta incompatibile con l'indole oggettiva
del valore "soglia" in questione e non  e'  consentito  dal  tipo  di
discrezionalita' ammessa  per  il  giudicante  in  subiecta  materia,
poiche'  detta  discrezionalita'  e'   pur   sempre   "vincolata"   -
trattandosi  d'un  procedimento  liquidatorio   che   conferisce   al
decidente un potere mai sostanzialmente arbitrario, ove si  riconosca
che e' comunque prevista una soglia minima  inderogabile  (riferibile
all'indole non meramente simbolica dell'indennizzo da riconoscere)  -
e  la  sua  sindacabilita'  in  sede  d'opposizione  garantisce   che
l'eventuale ricorso appunto a  parametri  d'equita'  non  vulneri  il
fondamento  che  la  predetta  discrezionalita'  ripete  dalla  legge
vigente; 
    -  provando  allora   ad   individuare   i   casi   astrattamente
prospettabili, e cioe': 
        a)  quello  in  cui  il  ricorrente  sia  stato  parzialmente
soccombente - vuoi quale attore (o ricorrente), vuoi quale  convenuto
(o resistente) - nel giudizio presupposto; 
        b)  quello  in  cui  il  ricorrente  sia   stato   totalmente
soccombente quale convenuto (o resistente) nei giudizio presupposto; 
        c)  quello  in  cui  il  ricorrente  sia   stato   totalmente
soccombente quale attore (o ricorrente) nel giudizio presupposto; 
    puo' pertanto assumersi, alla luce  delle  superiori  arguizioni,
che: 
        nell'ipotesi  sub  a),  il  valore  "soglia"   comunque   non
superabile nella liquidazione dell'indennizzo  (imposto  dall'art.  2
bis comma 3 della legge citata) debba essere identificato nel  valore
del diritto effettivamente riconosciuto  alla  parte  sostanzialmente
vittoriosa; 
        nell'ipotesi  sub  b),  il  valore  "soglia"   comunque   non
superabile sara'  pur  sempre  individuato  nel  valore  del  diritto
riconosciuto alla parte sostanzialmente  vittoriosa,  ed  ovviamente,
salva  la  specificita'  della  vicenda   processuale   (che   potra'
giustificare, in situazioni peculiari, anche l'equiparazione  tra  le
parti), potra' essere diversificata la misura dell'indennizzo - entro
il range assentito -  con  tendenziale  liquidazione  di  quella  del
sostanzialmente   soccombente   in   misura   inferiore   a    quella
riconoscibile al sostanzialmente vittorioso ma  con  possibilita'  di
sua equiparazione ad essa; 
        nell'ipotesi sub c), infine, e' da osservare che: 
          l'accertamento negativo della  sussistenza  di  un  diritto
equivale all'accertamento che il diritto fatto valere in giudizio  ha
valore (per chi asseriva di esserne titolare e di  poterne  fruire  e
disporre) giuridicamente ed economicamente pari a 0; 
          e' vero poi che, ove non siano  formulate  riconvenzionali,
ma mere difese (o eccezioni idonee a paralizzare la pretesa  altrui),
non v'e' ex adverso alcuna domanda e pertanto  non  puo'  agevolmente
affermarsi che la pronuncia abbia implicitamente accertato contra  un
qualche  diritto  del  convenuto  o  del  resistente  (cui   riferire
l'individuazione del predetto valore soglia). 
    A questo ultimo riguardo va pero' chiarito: 
        in primo luogo, che puo' assumersi, se il  soccombente  e  la
controparte permangono nella situazione quo antea, che dal  punto  di
vista della controparte vi sia una sostanziale vittoriosita', poiche'
essa pur godra' del risultato utile costituito dalla  continuita'  di
detta situazione  di  fatto  rispetto  alle  pretese  dell'attore  (o
ricorrente) su cui sia intervenuto il giudicato ed entro i limiti del
suo valore (quale  emerso  in  decisione)  potra'  invocare  per  se'
indennizzo (come riconosciuto sub b); 
        in  secondo  luogo,  che  cio'   non   equivale   ad   alcuna
stabilizzazione o qualificabilita' della  stessa  alla  stregua  d'un
diritto o di situazione di fatto giuridicamente tutelabile ne'  verso
costui ne' verso chicchessia ed  implichera'  soltanto  che  il  bene
della vita controverso (che ha pur sempre  un  valore  economicamente
quantificabile) risultera' "intatto" rispetto all'iniziativa attorea,
ma solo interinalmente; 
        in terzo luogo, che a pro' dell'attore  o  ricorrente  -  che
subisca  (nel   giudizio   presupposto)   la   predetta   soccombenza
processuale, eventualmente con condanna  soltanto  per  la  rifusione
delle spese processuali, ai fini della quantificazione del  correlato
diritto ad equo indennizzo in caso di durata irragionevole  di  detto
procedimento potra' utilizzarsi quale valore "soglia" non  superabile
quello del valore economico del diritto antea goduto dal convenuto  o
resistente vittorioso, o, qualora non ve ne fosse alcuno,  il  valore
soglia costituito dal valore economico del bene della vita dedotto in
controversia quale emerso in decisione mentre, in ultima analisi,  se
esso non sia suscettibile di rilievo patrimoniale,  non  v'e'  a  ben
vedere un parametro che consenta di provvedere; 
    dato atto che, nella vicenda che ne occupa: 
        a) la parte ricorrente e' risultata integralmente soccombente
nel giudizio presupposto; 
        b) il procedimento presupposto ha avuto una durata: 
          di anni dieci, mesi sei e giorni sei  per  il  giudizio  di
primo grado (dalla notifica dell'atto introduttivo, avvenuta in  data
21.7.1992 al deposito della sentenza di merito in data 28.1.2003); 
          di anni nove e giorni ventitre' per il giudizio di  secondo
grado (dalla notifica dell'atto d'impugnazione in data 17.11,2003  al
deposito della sentenza di merito in data 11.12.2012); 
          per complessivi anni diciannove mesi, e giorni ventinove; 
    vanno pero' detratti da tale durata: 
        per il primo grado: 
          il  periodo  decorso  dalla  dichiarata  interruzione   per
decesso del procuratore costituito di  parte  convenuta  (all'udienza
del 17.3.1993) fino alla successiva riassunzione del 22.4.1993,  pari
a mesi uno e giorni quattro; 
        per il secondo grado: 
          il  periodo  decorso  dalla  dichiarata  interruzione   per
decesso  del  procuratore  di  parte   appellata   (all'udienza   dei
15.11.2004) fino alla successiva riassunzione del 21.3.2005,  pari  a
mesi quattro e giorni cinque; 
          il periodo corrispondente  al  differimento  delle  udienze
originante  da  richiesta  di  rinvio  non  determinata  da  esigenze
processuali di sorta (per n. 1 udienza,  nella  data  del  6.3.2008),
pari a mesi tre; 
          e pertanto, complessivamente, esso e' effettivamente durato
anni diciannove, mesi undici e giorni venti; 
        c) esso eccede pertanto di anni quattordici,  mesi  undici  e
giorni venti rispetto ai termini di cui all'art. 2 bis e 2 ter  della
legge n. 89/2001; 
    Valutati la complessita' del caso, l'oggetto del procedimento, il
comportamento delle parti  e  del  giudice  durante  il  procedimento
nonche' degli altri soggetti chiamati a concorrere  o  a  contribuire
alla sua definizione e  la  circostanza  dell'avvenuta  compensazione
integrale tra le parti delle spese di lite per i primi due gradi  del
giudizio; 
    Dato atto che presso  questa  Corte  d'Appello  i  precedenti  di
merito disponibili ad oggi (per casi identici a quello  che  oggi  ne
occupa) appaiono tra loro discordanti al riguardo della soluzione  da
individuare per la questione esaminata, poiche': 
        - in precedente occasione (nei procedimento  iscritto  al  n.
566/2012 VG) essa e' stata risolta da questo magistrato delegato  nel
senso  di  riconoscere  comunque  l'operativita'   della   norma   di
riferimento, pur  senza  che  sia  ritraibile  nel  sistema  certezza
rassicurante in proposito; 
        - in data  8.4.2013  e'  stata  invece  da  altro  magistrato
delegato gia' posta questione di costituzionalita' (nel  procedimento
iscritto al n. 58/2013 VG) nei sensi che di seguito di riproducono: 
          "... 3. - Il parametro costituzionale  di  riferimento.  La
rilevanza  e  la  non  manifesta  infondatezza  della  questione   di
legittimita' costituzionale. 
    Il dubbio di costituzionalita' della norma suindicata  nasce  dal
contrasto della stessa con l'art. 6, § l, della  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre  1950,  come  interpretata
dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, nella
misura in cui tale norma, nella detta interpretazione,  puo'  e  deve
intendersi assurta  a  parametro  di  costituzionalita'  della  legge
interna per effetto del richiamo operato dall'art. 117 Cost. 
    3.1. - Al riguardo e' opportuno anzitutto brevemente tratteggiare
le coordinate giuridiche entro  le  quali  questo  decidente  ritiene
doversi muovere nel districarsi tra i' rapporti tra norme  interne  e
norme CEDU: 
        i)  prima  regola  deve  considerarsi  quella  (costantemente
affermata dalla Corte di Cassazione a partire  dalle  pronunce  delle
Sezioni Unite del 26 gennaio 2004, n. 1338, n. 1339,  n.  1340  e  n.
1341 e quindi avallata anche dalla  Corte  costituzionale  a  partire
dalle note sentenze gemelle del 2007, nn. 348 e 349, e  con  numerose
successive pronunce, sino, da ultimo, all'ordinanza 7 giugno 2012, n.
150) secondo cui il giudice comune ha  il  dovere  di  «applicare  il
diritto nazionale confermamente alla Convenzione» e di  «interpretare
detta legge in modo conforme alla  CEDU  per  come  essa  vive  nella
giurisprudenza della Corte europea»; a tal fine secondo  la  costante
giurisprudenza  costituzionale,  il  giudice  comune  deve  anzitutto
individuare la norma della Convenzione applicabile  alla  fattispecie
sottoposta al suo esame e, nel verificare se essa sia vulnerata dalla
disposizione interna, cio' deve fare avendo riguardo alla norma  CEDU
quale risulta dall'interpretazione  della  Corte  di  Strasburgo  (v.
Corte cost. 22 luglio 2011, n, 236 contenente una  completa  rassegna
delle pronunce che, a partire dalle sentenze 24 ottobre 2007, n.  348
e n. 349 del 2007, hanno affermato detto principio).  Egli  non  puo'
«sindacare l'interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di
Strasburgo», che  deve  applicare  nel  significato  attribuitole  da
quest'ultima, avendo  tuttavia  riguardo  alla  «sostanza  di  quella
giurisprudenza»,  e  dunque  potendo  in  tal  senso  giovarsi  degli
specifici margini di apprezzamento  riservati  al  giudice  nazionale
(Corte cost. 26 novembre 200, n. 311; 22 luglio 2011, n. 236, cit.); 
        ii) tale dovere opera «"per quanto possibile", e quindi  solo
nei limiti in cui detta interpretazione conforme sia  resa  possibile
dal testo della stessa legge»,  che  il  giudice  non  puo'  violare,
essendo ad essa «pur sempre soggetto», con la conseguenza che qualora
rilevi un contrasto della norma interna con la  norma  convenzionale,
al quale non possa porre rimedio mediante l'interpretazione conforme,
e' tenuto a sollevare questione di legittimita' costituzionale  della
prima, in riferimento all'art. 117, primo comma,  Cost.,  poiche'  e'
privo del potere di non applicare la disposizione interna (v. in  tal
senso, proprio in materia di equa riparazione, Cass. 11  marzo  2009,
n. 5894). 
    Siffatti principi, dopo  l'entrata  in  vigore  del  Trattato  di
Lisbona, sono stati dapprima implicitamente confermati da  una  serie
di sentenze del 2010 e dell'inizio del 2011 (sentenze 5 gennaio 2011,
n. l; 4 giugno 2010, n. 196; 28 maggio 2010, n. 187; 15 aprile  2010,
n. 138; 12 marzo 2010, n. 93) quindi,  sono  stati  ribaditi,  quanto
all'inesistenza del potere del  giudice  comune  di  disapplicare  la
norma intenta in contrasto con la norma convenzionale, dalla sentenza
11 marzo 2011, n.  80,  i  cui  principi  sono  stati  confermati  da
successive pronunce (sentenze l l novembre 2011, n.  303;  22  luglio
2011, n. 236; 8 giugno 2011, n. 175; 7 aprile 2011, n. 113; ordinanze
8 giugno 2011, n. 180; 15 aprile 2011, n. 138) e, di  recente,  hanno
ricevuto il conforto della Corte di  giustizia  (sentenza  24  aprile
2012, n. C-571/10, Kamberaj, secondo  la  quale  «il  rinvio  operato
dall'articolo. 6, paragrafo 3, TUE alla Convenzione  europea  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali,
firmata a Roma il 4 novembre 1950, non impone al  giudice  nazionale,
in caso di conflitto tra una  norma  di  diritto  nazionale  e  detta
Convenzione,   di   applicare   direttamente   le   disposizioni   di
quest'ultima, disapplicando norma di diritto nazionale  in  contrasto
con essa»). 
    3.2. - Orbene, le esposte coordinate non  possono  che  condurre,
con riferimento alla questione descritta, ad investire  della  stessa
la Corte costituzionale, sussistendo entrambi i presupposti richiesti
dall'art.  23  legge  11.3.1953  n.  87,  ossia  la  rilevanza  della
questione ai fini della decisione sulla proposta  domanda  e  la  non
manifesta infondatezza della stessa. 
    Quanto alla rilevanza e' appena il caso di ribadire che la  norma
additata a sospetto ha una diretta incidenza  nella  decisione  sulla
proposta  domanda  di  equa  riparazione:  se  ne   fosse,   infatti,
confermata  la  legittimita'  costituzionale  in  applicazione  della
stessa la domanda (come in altri casi analoghi e'  stato  deciso  nei
precedenti  citati)  andrebbe  rigettata;  in  caso  contrario   essa
andrebbe accolta, salvo solo una  commisurazione  tendenzialmente  al
minimo dell'indennizzo spettante, all'interno del range  fissato  nel
primo comma dell'art. 2-bis e salvo sempre  il  limite  rappresentato
dal valore della causa. 
    Quanto alla sua  non  manifesta  infondatezza  la  stessa  appare
altresi' piu' che fondatamente predicabile, atteso che, da  un  lato,
non puo' dubitarsi dell'irriducibile contrasto  della  norma  interna
(ripetesi, art.  2-bis  comma  3,  ultimo  inciso,  89/2001)  con  la
giurisprudenza della Corte europea  sul  tema,  dall'altro,  si  deve
anche escludere la  possibilita'  di'  una  diversa  interpretazione,
costituzionalmente orientata, della norma interna. 
    3.2.1. - Sotto il primo profilo (contrasto  della  norma  con  la
giurisprudenza europea) e' noto che la Corte di Strasburgo ha  sempre
sottolineato l'irrilevanza della soccombenza del ricorrente, in se' e
per  se'  considerata,  ai  fini  del  diritto  allea   «satisfaction
equitable» dell'art. 41 della Convenzione, in ragione del rilievo che
la parte,  indipendentemente  dall'esito  della  causa,  ha  comunque
subito una diminuzione della qualita' della vita in  conseguenza  dei
patemi d'animo sopportati durante il  lungo  arco  temporale  che  ha
preceduto la definitiva decisione della sua posizione processuale (v.
ex  aliis  Corte  europea  diritti  dell'uomo,  19   febbraio   1992,
Paulsen-Medalen c. Svezia, in Recueil 1998, 1, p.  132,  che,  in  un
caso in cui una madre protestava contro alcune restrizioni al diritto
di visitare i propri figli, dati in affidamento, ha riconosciuto alla
ricorrente la somma di 10.000 corone titolo di  "equa  soddisfazione"
ai sensi dell'art. 41 della convenzione, anche se le  restrizioni  in
questione erano state confermate nei vari gradi di giudizio). 
    Un siffatto principio e'  da  sempre  stato  ribadito,  sotto  il
vigore  della  previgente  disciplina,  dalla  Corte  di   Cassazione
essendosi da sempre affermato - come gia' visto - che  il  danno  non
patrimoniale non e' escluso dall'esito negativo del processo,  ovvero
dall'elevata possibilita'  del  rigetto  della  domanda  e  che,  per
ritenere  infondata  la  domanda,  occorre,  come  pure  sopra   gia'
accennato, che la parte si sia resa responsabile di lite temeraria, o
comunque di un vero e proprio abuso del processo (da ultimo Cass.  12
aprile 2010, n. 8632; Cass. 9 aprile 2010, n. 8541), del  quale  deve
dare prova la parte che la eccepisce (tra le molte, Cass. 19  gennaio
2010, n. 819). Secondo la Corte di Cassazione, per negare l'esistenza
del danno, puo' bensi' assumere  rilievo  la  "chiara,  originaria  e
perdurante certezza sulla inconsistenza" del diritto fatto valere nel
giudizio, con l'avvertenza che  non  "equivale  a  siffatta  certezza
originaria  la  nera  consapevolezza  della  scarsa  probabilita'  di
successo della azione" (Cass.  2  aprile  2010,  n.  8165;  2008,  n.
24269). 
    Il descritto     quadro     internazionale,      normativo      e
giurisprudenziale,   di    riferimento    non    puo'    considerarsi
rilevantemente  mutato,  per  il  profilo   in   esame,   a   seguito
dell'entrata in vigore, il 1 giugno 2010, del nuovo art.  35  co.  3°
lett. b) della Convenzione EDU, che consente al giudice di Strasburgo
di dichiarare irricevibile il ricorso individuale ex art. 34  per  il
quale il ricorrente non abbia  subito  alcun  pregiudizio  rilevante,
salve le ipotesi (c.d. clausole di salvaguardia) di mancato esame del
caso da parte  del  giudice  nazionale,  oppure  di  compressione  di
diritti umani convenzionali. 
    Occorre al  riguardo  osservare  che  i  contorni  e  i  riflessi
operativi  di  una  tale  condizione  di  ricevibilita'  (comunemente
definita de minimis non curat praetor  e  finalizzata  a  ridurre  il
contenzioso su violazioni di minima  entita')  non  risultano  ancora
chiari e consolidati, 
    A quanto consta, le uniche applicazioni sono state fatte: a)  per
escludere il diritto all'equa riparazione in relazione  alla  equita'
di un procedimento penale conclusosi con  la  condanna  a  multa  per
€ 150,00 oltre ad € 22,00 per spese e al ritiro  di  un  punto  dalla
patente di  guida  (sent.  19.10.2010,  Rinck  c.  Francia);  b)  per
escludere l'equa riparazione reclamata dall'imputato  per  la  durata
irragionevole di un  processo  penale  conclusosi  pero',  proprio  a
ragione  della  sua  durata,  con  il  proscioglimento  dell'imputato
medesimo per prescrizione del reato, che la Corte ha ritenuto  idonea
ad integrare una compensatio lucri cum damno a favore del  ricorrente
(Corte EDU 6 marzo 2012, Gagliano c. Italia: in tale caso tuttavia la
Corte ha poi comunque condannato lo Stato italiano  al  pagamento  di
una somma di euro 500, forfettariamente determinata, oltre spese, per
il danno morale subito dal  ricorrente  per  l'eccessiva  durata  del
procedimento ex lege Plnto). 
    In altra sentenza infine,  la  Corte  di  Strasburgo,  dopo  aver
rilevato che  "la  giurisprudenza,  ancora  limitata,  fornisce  solo
parzialmente i criteri che permettono di verificare se la  violazione
del diritto abbia  raggiunto  'la  soglia  minima'  di  gravita'  per
giustificare un esame da parte di un giudice internazionale"; che "la
valutazione dl questa soglia e', per sua natura, relativa  e  dipende
dalle circostanze del caso di specie" (§ 33);  che  occorre  comunque
"tener conto dei seguenti elementi: la  natura  del  diritto  che  si
presume violato, la gravita' dell'incidenza della violazione allegata
nell'esercizio di un  diritto  e/o  le  eventuali  conseguenze  della
violazione sulla situazione personale del ricorrente" (§ 34) (ma - si
aggiunge  nella  sentenza  Gagliano,  cit.,  §  55  -  anche   "della
percezione soggettiva del ricorrente e della posta in gioco oggettiva
della controversia"), ha poi affermato il principio  secondo  cui,  a
fronte di una grave violazione del principio  di  durata  ragionevole
del processo, "l'entita' della causa  innanzi  ai  giudici  nazionali
puo' essere determinante soltanto nell'ipotesi in cui il  valore  sia
modico o irrisorio" (sentenza 18 ottobre 2010, Giusti  c.  Italia,  §
35). 
    A ben vedere nulla autorizza a ritenere che  una  tale  clausola,
essendo rapportata a parametri ulteriori e  diversi  dal  mero  esito
della causa e legati piuttosto alla  considerazione  delle  variabili
circostanze del caso  concreto,  possa  di  per  se'  comportare  una
revisione  dei  descritti  parametri  talmente  radicale  da  potersi
prevedere che, in forza della stessa, possa  escludersi  tout  court,
sempre e in ogni caso, la riconoscibilita' dell'equo indennizzo  alla
parte soccombente. 
    3.2.2.  -  Sotto  il  secondo  profilo   (possibilita'   di   una
interpretazione costituzionalmente orientata della norma interna tale
da renderla compatibile con il parametro pattizio  come  interpretato
dalla giurisprudenza europea), non puo' non ribadirsi  che  ogni  pur
dovuto tentativo in tale direzione  e'  destinato  a  scontrarsi  con
l'insuperabile dato testuale della norma, che impedisce di  liquidare
un indennizzo in misura superiore al "valore del diritto accertato". 
    La lettera di tale ultima disposizione non sembra in  particolare
consentirne una interpretazione restrittiva e correttiva nel senso di
ritenere - come pure e' stato sostenuto in uno dei primi  commenti  -
che "il riferimento al diritto accertato dal giudice  costituisca  un
limite nella determinazione del valore della causa cosi' come avviene
per individuare lo scaglione di valore  della  causa  ai  fini  della
liquidazione delle spese legali":  l'analisi  logica  della  frase  e
l'uso  della  disgiuntiva  "o",   rafforzato   peraltro   dall'inciso
condizionale "se inferiore",  evidenziano  inconfutabilmente  che  il
valore del diritto accertato viene indicato, in alternativa a  quello
dei valore della causa, come limite alla "misura  dell'indennizzo"  e
non come criterio di determinazione del "valore della causa". 
    Una diversa  lettura  finirebbe,  dunque,  col  tradursi  in  una
interpretazione contra legem, come detto non consentita nemmeno se si
tratta di armonizzare la norma interna  al  parametro  costituzionale
rappresentato dalla CEDU, ln forza del richiamo ai "vincoli derivanti
... dagli obblighi internazionali"  contenuto  nell'art.  117  Cost.,
dovendo, in tal caso,  una  siffatta  opera  di  raccordo  tra  fonte
interna e fonte internazionale in  conflitto  essere  necessariamente
rimessa alla Corte delle leggi nei termini, e con  le  consequenziali
statuizioni, di cui al dispositivo ..."; 
    Constatato che quanto sinora esposto  legittima  ulteriormente  a
ritenere sussistenti i presupposti per promuovere  dunque,  in  piena
adesione  al  secondo  precedente  retro  richiamato,  incidente   di
costituzionalita' della disposizione  in  premessa  richiamata  anche
nell'odierno  procedimento  onde  far  seguire   ad   esso   la   sua
definizione;